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libro Placido Mandanici di Gioacchino Grasso

Si ringrazia il compianto Prof. Gioacchino Grasso per aver permesso la pubblicazione della biografia
tratta dal Suo libro “Placido Mandanici” ed. La Palma, 1991.

I
ALLA SCOPERTA DEI SEGRETI DELL’ARTE MUSICALE

    Pochi mesi prima che il Settecento consegnasse il testimone al secolo successivo, la lista dei musicisti siciliani si arricchì di un nuo­vo nome: Placido Mandanici.

    Infatti, quando la casa di Andrea Mandanici e di Nunziata Chillemi fu allietata dai vagiti di un bambino, cui furono imposti i nomi di Pla­cido, Gaspare, Melchiorre, Baldassarre, Matteo, Carmelo, era il 3 luglio del 1799, l'anno dello scoppio della insurrezione napoletana, della nascita della repubblica, della sua caduta e del bagno di sangue ordinato dalla Giunta di Stato, che giudicò i nobili e i borghesi rei del tentativo di rompere con il passato e con i Borboni.
    Il battesimo fu celebrato il giorno successivo nella chiesa di S. Sebastiano in Barcellona da don Carmelo Calderone e il padrino fu un certo Matteo Perrone (1).

    Alcuni di essi (2) hanno fatto risalire la nascita all'anno preceden­te, ma tale indicazione risulta errata.

    Che l'anno di nascita sia stato il 1799, come afferma il Bartolone (3), si evince dall'atto di battesimo e ce lo conferma il col. Barresi-Mandanici, parente del compositore, in una chiosa autografa apposta in calce alla pagina 124 di una copia dell'opera del Di Benedetto (4).

    Inoltre qualcuno sostiene che il Mandanici sia nato ad Acquaficara, oggi frazione del comune di Barcellona P.G., ma si tratta di una tesi, a nostro parere, non avvalorabile in quanto, se così fosse, non ci si spie­gherebbe il fatto che l'atto di battesimo non si trovi nel volume dei battezzati in Acquaficara, ma in quello di Barcellona, chiesa di S. Sebastiano (5).

    Né è ragionevolmente sostenibile che i genitori si siano recati a Barcellona, sottoponendo il neonato ai disagi facilmente immaginabili di un viaggio di alcuni chilometri con gli scomodi mezzi di locomo­zione di allora, mentre lo avrebbero potuto agevolmente battezzare in loco.

    All'epoca della nascita del loro figlioletto, i Mandanici abitavano a Barcellona, allora casale di Castroreale, in via Cumà (la via è stata intitolata poi al musicista) (6), «non erano contadini e non servirono mai nessuno» (7).

    Ancora fanciullo, Placido dimostrò la sua innata vocazione per l'arte dei suoni e certamente si deve alla sensibilità del barone Miche­le Nicolaci, se il ragazzo poté coltivare la sua passione (8).
    Infatti in casa di questo nobiluomo, generoso e amante della buona musica, apprese le prime nozioni di teoria musicale e cominciò a prendere confidenza con il violoncello, strumento che il Nicolaci suo­nava da provetto dilettante.

    Successivamente fu avviato al R. Collegio musicale del Buon Pastore di Palermo, l'odierno Conservatorio di Musica «V. Bellini», dallo zio materno don Placido Chillemi e dal barone, il quale, resosi conto del talento del giovinetto, interpose i suoi autorevoli uffici per­ché vi fosse ammesso e non gli lesinò aiuti finanziari (9).

    Divenne così allievo di quell'istituto, il cui organico già alla fine del diciottesimo secolo era molto ampio, in quanto vi si insegnavano non solo le discipline musicali, ma anche le lettere, il latino e il francese.

Iniziati gli studi regolari nel 1815, Mandanici li portò a termine onorevolmente nel 1820.
    Il Daita infatti incluse il suo nominativo nel «Prospetto statistico dei principali artisti usciti dal Collegio musicale del Buon Pastore in Palermo» (10), dove Mandanici aveva proseguito lo studio del suo primo strumento e ne aveva imparato a suonare parecchi altri (11).

    Certamente gli anni del suo soggiorno palermitano furono estrema­mente importanti per la sua preparazione musicale, anche se il «Buon Pastore» attraversava un periodo critico.

    Quanto alla sua formazione civile e sociale, riteniamo che non fu meno impegnata. A tale conclusione ci pare di poter pervenire per una particolare situazione determinatasi in quegli anni, che gli consentì di coltivare gli ideali di libertà e di indipendenza: su quel collegio «gra­vava il sospetto di essere divenuto un covo della Carboneria» (12).

    Vale la pena di ricordare che dopo il Congresso di Vienna era stata soppressa la Costituzione del 1812 e si era formato il Regno delle Due Sicilie. Pertanto Palermo, perduto il ruolo di capitale e diventata una città di provincia, era andata decadendo sempre più. Gravi erano le condizioni in cui viveva il popolo e tutti, baroni e plebe, clero e laici, avversavano il governo borbonico.

    In tale clima nel 1820 scoppiò a Palermo la rivoluzione che, come afferma l'eminente storico Romeo, «fu l'esplosione del malcontento provocato dalle riforme del "quinquennio"; e il popolo palermitano fu il vero protagonista e autore di quella rivolta» (13).

    In quello stesso anno il giovane maestro raggiunse Reggio Cala­bria, avendo ottenuto una scrittura quale contrabbassista nell'orchestra di quel teatro, e vi rimase per circa quattro anni.

    Durante questo periodo Mandanici, che aveva conseguito una certa indipendenza economica grazie al ruolo sia pure modesto di orchestra­le, cominciò a respirare la polvere del palcoscenico e nel contempo si dedicò con ardore allo studio del pianoforte onde poter abbandonare il posto di semplice sinfonista (14).

II
UN DECENNIO NELLA NAPOLI BORBONICA DEL PRIMO OTTOCENTO

    Per il giovane musicista barcellonese, in cui un notevole talento non era disgiunto da un vivo desiderio di emergere e di cogliere maggiori soddisfazioni (1), allora non c'era altra alternativa che raggiungere Napoli, la più vicina delle due città-fulcro (2).

    Infatti Napoli non era solo la capitale del regno borbonico, nella quale letterati, filosofi e artisti erano portatori di idee nuove, ma anche la capitale europea della musica, sulla cui scena dominava incontrastato il genio «ardito, fantastico, immenso, inesausto, strapotente di Gioacchino Rossini».

    Come tale, dunque, era un centro ricco di intensa, fervida, rilevante vita artistica.

    Ne era eloquente testimonianza l'attiva compresenza di numerosi teatri (il S. Carlo, il Fondo, il Nuovo, i Fiorentini, il San Carlino, per citare i maggiori), nonché di istituti musicali (3), che nei primi anni dell'Ottocento furono fusi in un solo conservatorio (poi definitivamente alloggiato nel monastero di S. Pietro a Majella) con la nutrita schiera di insigni maestri, come Alessandro Scarlatti, Mancini, Duran­te, Fenaroli, Tritto, Coccia, Porpora, Zingarelli, Raimondi, i quali, succedendosi nel tempo, avevano dato e davano lustro alla gloriosa Scuola Napoletana.

    Poiché l'interesse della vita musicale cittadina era rivolto quasi esclusivamente all'opera in musica, era più che naturale che in primo luogo il teatro S. Carlo e poi il Fondo e il Nuovo ne costituissero il centro.

    A tal proposito il Landini scrive:

    «Per avere un quadro chiaro di quale fosse la vita operistica della Napoli di quel tempo, non si dovrà credere che l'attività del S. Carlo da sola catalizzasse l'attenzione del pubblico napoletano a scapito delle scene minori. Prima di tutto accadeva con frequenza che i Teatri più importanti (S. Carlo, Nuovo e Fondo) fossero gestiti congiunta­mente; questo implicava uno scambio di compositori e cantanti. Inol­tre non va dimenticato che nel secolo scorso, là dove fossero attivi più palcoscenici, l'assegnazione dei repertori avveniva per generi, al di là del valore musicale delle singole opere. Alle grandi scene toccavano lavori di vasto impegno anche sotto il profilo scenico, mentre le farse e le commedie brillanti toccavano alle scene minori, anche se le farse erano Il matrimonio segreto di Cimarosa o l'Agnese di Paër, che per esempio nel 1814 veniva rappresentata al "Teatro dei Fiorentini"» (4).

    Inoltre con l'avvento del XIX secolo si registra sul piano sociolo­gico un fenomeno di notevole rilievo nella vita teatrale:

    «il melodram­ma non è più un trattenimento esclusivamente aristocratico, diventa anche il passate,--,.,,o dei borghesi arricchiti quando non divien addirit­tura soggetto al pubblico del loggione, che fa imperiosamente prevale­re le sue tendenze "democratiche". Questo nuovo pubblico... impone, per la sua stessa consistenza numerica, dei nuovi problemi tecnici: per esempio un'orchestra più complessa, più ricca, più sonora di quella alquanto tenue e striminzita del Settecento. Il canto perde quindi la supremazia esclusiva» (5).

    Né va sottaciuto che a Napoli in quel periodo si afferma la casa editrice fondata da Giuseppe Girard, che stampa le opere dei più importanti musicisti, tra cui molti lavori del maestro barcellonese, e il suo negozio è «per molti anni luogo di incontro e di ritrovo non solo per gli appassionati di musica, ma per la più avanzata intellettualità napoletana» (6).

    Nei primi decenni di quel secolo tra i giovani maestri che si accin­gevano a intraprendere l'ardua e non sempre gratificante via del teatro e stavano perciò tentando le prime prove, non si possono non citare due nomi: Donizetti e Bellini.

    L'uno, ancora agli inizi della sua carriera di operista, nel 1824 pre­sentava al teatro Nuovo Emilia di Liverpool; l'altro, superati, felice­mente gli esami per « maestrino» , proprio in quell'anno cominciava a «frequentare i salotti napoletani, un ambiente che lo appagava con la sua atmosfera coltivata e gradevole» (7).

    Mandanici (non sappiamo se con l'appoggio di un personaggio autorevole o di un nobile mecenate) giunse nella città partenopea appunto nel 1824 e poté frequentare la scuola napoletana, benché non fosse facile l'accesso, data la rinomanza di cui giustamente godeva.

    • Intanto, essendo deceduto il Tritto (8), nella cattedra di contrap­punto e composizione di cui era titolare, gli subentrava il suo allievo, Pietro Raimondi.

    Questo musicista, nato a Roma nel 1786, si era affermato a Genova con l'opera buffa Le bizzarrie d'amore. Ritornato a Napoli, non solo si dedicava all'insegnamento, ma dirigeva anche i Reali Teatri ed era apprezzato come compositore, grazie al successo ottenuto con l'opera Il ventaglio. Nel 1832 avrebbe accettato la cattedra di contrappunto a Palermo presso il Conservatorio del Buon Pastore e il posto di diretto­re del Real Teatro Carolino (9). Vent'anni dopo avrebbe assunto il prestigioso incarico di maestro di cappella a S. Pietro in Vaticano, mantenendolo fino al 1853, anno della sua scomparsa. Lasciò una ses­santina di opere teatrali e molta musica sacra in stile palestriniano. Da ricordare, certamente, gli oratori di Putifar, Giuseppe e Giacobbe, che presentano una strana quanto rara peculiarità: possono essere eseguiti tanto singolarmente che sincronicamente.

    Numerosi furono i musicisti (oltre a Mandanici, segnaliamo, tra gli altri, Federico Ricci, Luigi Felice Rossi, Pietro Platania) che si forma­rono e si perfezionarono sotto la (sagace) guida del Raimondi, che come contrappuntista fu uno dei maggiori fenomeni e come operista un autentico rappresentante della scuola napoletana.

    Le sue lezioni furono seguite dal giovane siciliano con assiduità, interesse e impegno per poter completare e affinare il suo bagaglio tecnico. A lui, in segno di devozione e gratitudine, dedicherà un capriccio concertante per due violini, viola e violoncello.

    Durante la sua permanenza a Napoli Mandanici instaura rapporti di cordiale amicizia con altri giovani, che, attirati come lui dalla fama di quella scuola, si erano recati in quella città per ragioni di studio.

    Uno dei suoi amici più cari è il pianista messinese Ernesto Coop, che il Pannain non esita a definire «il campione dell'arte pianistica nella vecchia Napoli borbonica» (10). A lui nel luglio del 1846 indi­rizza una lettera per raccomandargli i coniugi Cambiasi che, «sapendo per relazione la bravura tua e maestria nel toccare il pianoforte hanno piacere di farne la conoscenza».

    Meritano di essere ricordati anche i fratelli Antonio e Luigi Ronzi, l'uno compositore e l'altro maestro di canto molto apprezzato da Ros­sini. Quali fossero i loro rapporti si evince dalla lettera inviata ad Antonio nel 1848: «Sono più di vent'anni che noi ci conosciamo, e credo che fra noi non vi sia stato mai il minimo motivo di disgusto; che anzi la più stretta e fratellevole amicizia ci ha collegati, e ci abbia dato reciprocamente non dubbia prova della nostra sincerità... Ma tale equivoco è indegno del buon senso di Luigi, egli che mi ha conosciuto intimamente e che nella nostra prima gioventù ci abbiamo diviso il sonno e siamo stati più che fratelli... Io per lui e per tutti voi mi gette­rei nel fuoco, e sarebbe una ingratitudine se per un equivoco si doves­se rompere la nostra amicizia, alla quale io tengo come la cosa più cara al mondo... Ti abbraccio fortemente e sono per la vita il tuo sin­cero amico» (11).

    In un'altra lettera destinata a Luigi, Mandanici parla di «tua speri­mentata amicizia» (12).

    Nella sua cerchia di amici c'è certamente anche il professore di canto, (cav.) D. Alessandro Micheroux, «uno dei più distinti cultori della bell'arte». Così lo definirà Adolfo Noseda in una lettera del 29 giugno del 1861 indirizzata al padre, al quale annuncia di aver acqui­stato «musica ed opere di materia musicale», già possedute da Miche­roux, tra cui figurano anche alcune composizioni mandaniciane, che formano il Fondo Noseda, custodito presso la Biblioteca del Conser­vatorio milanese.

    Come diremo poi, Mandanici dedicò a questo professore dei sol­feggi per voce di mezzosoprano.

    Qualche tempo dopo il suo arrivo a Napoli il musicista siciliano ebbe il primo importante riconoscimento con la nomina a compositore della musica dei balli dei Reali Teatri: il S. Carlo e il Fondo.

    Il primo era stato inaugurato con l'opera Achille in Sciro di Dome­nico Sarro su libretto di P. Metastasio la sera del 4 novembre 1737, in occasione dell'onomastico del re Carlo di Borbone, di cui il teatro stesso porta il nome, ben quaranta anni prima che a Milano fosse aper­to il teatro Alla Scala e mezzo secolo prima dell'inizio dell'attività del Gran Teatro veneziano «La Fenice».

    Distrutto da un incendio nel 1816, il S. Carlo era stato ricostruito a tempo di record su disegno di uno dei più illustri architetti neoclassici, Nicolini, e riaperto nel gennaio dell'anno successivo. Nel ricordo di questo teatro di particolare prestigio lasciatoci da Stendhal la sala è in oro e in argento, i palchi in azzurro. Seppure inferiore alla Scala per i costumi e gli scenari, supera il teatro del Piermarini per i pregi della sua orchestra, che era forse la migliore d'Europa. Secondo lo scrittore francese, «non c'è nulla in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea» (13).

    E Berlioz, suo conterraneo, venuto quale vincitore del Prix de Rome in Italia, chiamata «terra classica del genio della musica», annota: «A1 S. Carlo sentii della vera musica per la prima volta dal mio arrivo in Italia. L'orchestra, in confronto con quelle esaminate fino allora, mi parve eccellente. Gli strumenti a fiato possono essere ascoltati senza preoccupazione; non si ha niente a temere da parte loro; i violini sono abbastanza abili, e i violoncelli cantano bene, ma sono in numero troppo esiguo» (14).

    L'altro chiamato teatro del Fondo (nel 1892 sarà intitolato a Mer­cadante), perché costruito a spese della Cassa Militare del fondo della separazione dei lucri, era stato aperto il 20 luglio 1799 con un'opera di Domenico Cimarosa, L'infedeltà fedele (librettista Lorenzi). In que­sto teatro si dava l'opera buffa o semiseria, a differenza del S. Carlo, dove, come abbiamo già detto, venivano rappresentate soltanto opere serie.

    «AI Fondo, scrive Berlioz, si rappresenta l'opera buffa, con una vivacità, un fuoco, un brio, che gli assicurano superiorità incontestabi­le sulla maggior parte dei teatri d'opera comica» (15).

    Mandanici dunque si presentò al mondo musicale come composito­re della musica dei balli e nell'arco dei dieci anni trascorsi in questa città la sua attività fu assai intensa. Compose espressamente musiche per molti balli, dei quali alcuni furono dati al S. Carlo, altri al teatro del Fondo e Alla Scala e uno al Kónigliche Schauspiele di Berlino, oltre a quelli la cui musica si deve a lui e ad altri musicisti del tempo (16).

    Lavorò anche per conto del Re delle Due Sicilie, componendo musica per i balli di carnevale, che si tenevano nel reale appartamen­to, detto del Duca di Calabria (17).

    Come operista, esordì nel 1829 al Teatro del Fondo con L'Isola disabitata, dramma in un atto di Pietro Metastasio, cui seguirono altri lavori tra cui Argene, melodramma in due atti, rappresentato al S. Carlo, e La moglie di mio marito e il marito di mia moglie, dato al Nuovo, un teatro di grande tradizione, costruito da Vaccaro, al quale si faceva vanto di «aver saputo disporre in uno spazio di ottanta palmi quadrati... un teatro di cinque ordini con tredici palchi per ciascuno... e tanto simmetrico e ben ordinato che dai palchetti laterali si vedeva così bene come da quelli di fronte» (18).

    Alla produzione teatrale accennata si devono aggiungere alcune cantate, tra cui Gli Aragonesi a Napoli, eseguite al S. Carlo.

    Nell'autunno del 1834 Mandanici lasciò la città che aveva visto la sua nascita artistica e aveva riconosciuto i suoi meriti, nonché una numerosa cerchia di amici, i quali grazie al suo carattere, lo circonda­vano di affettuosa simpatia e lo apprezzavano come uomo e come arti­sta.

    Si concludeva così un'altra tappa fondamentale nell'itinerario arti­stico del musicista barcellonese.

III
A MILANO, LA MECCA DEGLI ARTISTI

    Quale sia stato il motivo che sta alla base della decisione di lascia­re Napoli non è dato sapere con certezza.

    Senza dubbio c'era in lui l'ambizione legittima di fare un nuovo balzo che lo avrebbe portato da Napoli a Milano, una città che, oltre ad essere un notevole centro di produzione operistica, offriva certa­mente una pluralità di sbocchi professionali.

    Lì certamente Mandanici non arrivava da sconosciuto.

    Infatti, come abbiamo già accennato, un suo lavoro Pietro di Por­togallo ovvero Ines di Castro (un ballo) era stato dato per ben ventitré volte al teatro Alla Scala, tra la primavera e l'estate del 1827.

    Del resto Mandanici aveva davanti a sé un illustre precedente: sette anni prima, un suo conterraneo, Vincenzo Bellini, che a Napoli aveva studiato e si era affermato, aveva maturato la stessa decisione, anche se motivi non solo di natura artistica ne avevano determinato il tra­sferimento nella città lombarda.

    Tuttavia non riteniamo che si possa aprioristicamente escludere l'ipotesi di una incompatibilità tra le sue idee politiche, peraltro già affiorate durante il suo soggiorno giovanile a Palermo, e il clima instaurato dai Borboni, divenuto più pesante negli anni trenta.

    Infatti «le illusioni sorte circa la politica inaugurata da Ferdinando nel '30 ed alimentate persino dal suo matrimonio con Maria Cristina di Savoja, si dissiparono ben presto» (1).

    Contro questa tesi si potrebbe obiettare che il musicista aveva pur composto non solo parecchi suoi lavori, rappresentati nei Reali Teatri, in occasione dell'onomastico e del genetliaco degli assolutisti re bor­boni Francesco I e Ferdinando II, nonché della regina Maria Cristina, ma anche un inno Viva il re in onore dello stesso Ferdinando II.

    Ebbene non ci sembra fuor di luogo ricordare che Giuseppe Verdi, la cui adesione alla causa risorgimentale non può certamente essere messa in discussione, dedicò all'arciduchessa Adelaide d'Austria una delle sue più emblematiche opere: il Nabucco con il «Va' pensiero, sull'ali dorate», che, come afferma Mila, «segnò il primo di quegli incontri incendiari tra il genio melodico di Verdi e le speranze del­l'Italia, che dovevano fare di lui il Maestro del Risorgimento Italiano» (2). E lo stesso autorevole musicologo continuando precisa: «Il Gatti si dà da fare a spiegarci che la Serenissima stava per andare sposa, il 12 aprile, al duca di Savoja Vittorio Emanuele, facendo così ingresso in quella casa che aveva ascoltato i primi voti di ricostruzione della Patria. Ma, veramente, nel 1842, quella casa non aveva ascoltato, né accolto un bel niente» (3). E il Rumi osserva: «Nessuna cortigianeria in Verdi. Piuttosto la problematicità del contemporaneo che il postero fatica a comprendere» (4).

    Stabilitosi a Milano, Mandanici, consapevole della precarietà del lavoro operistico, si dedica all'insegnamento: apre una scuola di canto e composizione.

    L'impegno didattico però non lo distoglie dall'attività compositiva.

    Nei primi tre anni di vita milanese infatti scrive tre opere: La fedeltà alla prova, che viene rappresentata a Napoli al R. Teatro del Fondo, 11 segreto per il Carignano di Torino, un teatro attivo fin dai primi anni del Settecento, e Il rapimento per la Scala.

    Costruito su disegno di G. Piermarini, un allievo dell'architetto napoletano Vanvitelli, il teatro Alla Scala, per volere di Maria Teresa, doveva essere «il tempio della lirica più grandioso e sfarzoso del mondo». Inaugurato nel 1778 con l'Europa riconosciuta, opera com­missionata per l'occasione ad Antonio Salieri, era destinato a diventa­re «famoso come centro dell'opera italiana e con le celebrazioni nazionali che si tenevano... anche il centro della storia politica e sociale italiana» (5).

    Nella lettera che il conte Pietro Verri inviò al fratello Alessandro il 5 agosto 1778, in cui sono esaltate l'acustica e la magnificenza del teatro, nonché l'orchestra, «si presume già l'inizio di quella fastosità e ricchezza decorativa e artistica che doveva fare in seguito della Scala il primo teatro del mondo».

    Stendhal dirà: «Chiamo la Scala il primo teatro del mondo, perché è quello che dà il massimo godimento musicale» (6).

    E Romani in un articolo scriveva: «Era pur serio... era pur grave, per un compositore di musica di cimento di presentarsi a Milano, e sul teatro della Scala, con un novello spartito! Le scene risuonavano ancora delle celesti melodie del Bellini; /1 pirata e la straniera, la Norma e la Sonnambula dilatato avevano il regno dell'italiana Polin­nia, la Lalande e la Pasta, Rubini e Tamburini avevano appreso dal Siculo Genio più sublimi lor canti e il Siculo Genio dominava le menti, governava i cuori, signoreggiava gli affetti di quella popolazio­ne sì colta, sì gentile, sì appassionata per la musica...» (7).

    In questo tempio della lirica, aperto alle novità, Mandanici affronta i critici scaligeri, ben noti per la severità dei loro giudizi, nonché un pubblico «abituato alla grandiosità degli spettacoli sontuosi e agli effetti musicali di grande rilievo» (F. Liszt), talmente competente ed esigente che Ponchielli più tardi lo temerà al punto di definirlo «que­sto Minosse che in due ore manda alla malora un maestro».

    Inoltre il musicista barcellonese non trascura i contatti con gli artisti più apprezzati e frequenta i mondani salotti dorati delle famiglie aristocratiche e della ricca borghesia.

    Ma vediamo quale era allora la temperie culturale e artistica a Mi­lano.

    In quegli anni nella capitale lombarda, dove la vita musicale è ricca di molteplici e mutevoli proposte, «fanno cornice alle manifesta­zioni pubbliche quelle semiprivate e private, ben più interessanti come mezzo di conoscenza e di contatti. Sono anzitutto le società dei Nobi­li, del Giardino, degli Artisti, l'Accademia filarmonica e poi i salotti e le case patrizie, dove si fa musica per gli eletti. I Maffei cominciano a mettersi in luce e ricevono Liszt, 1838, che suona pure in casa Bel­gioioso, e si tengono riunioni musicali in casa del barone Ertmann, che aveva sposato una allieva di Beethoven, e nelle case dei Litta, dei Castelbarco, dei Belgioioso, dei Brivio, in casa Branca e in casa Lich­tenthal» (8).

    Negli anni 1837 e 1838 dopo il lungo soggiorno francese Rossini, il gran nume di quei tempi, trascorse alcuni mesi a Milano, ove «cele­berrimi artisti affluirono in gran numero; oltre il sommo Rossini, v'erano Mercadante, Coccia, Ricci, Coppola, Mazzucato, Mandanici (maestri), Liszt, Pixis, Hiller, Schoberlechner (pianisti), Poddi, Nour­rit, Pedrazzi, Inchindi, Chober, Badiale, Rovere, Zuccoli (cantanti), la Pasta, la Brambilla, la Taccani, la Garcia, la Schoberlechner, la Dar­cincourt, la Borghese, la Giannini, la Pixis (prime donne) e tanti e tanti altri che sarebbe troppo lungo di qui enumerare, senza contare i maestri locali del Conservatorio di Musica e i famosissimi dilettanti, da paragonare ai più abili artisti, dei quali la città andava con ragione superba» (9).

    Insomma le due famiglie dei principi Belgioioso, le famiglie dei conti Castelbarco, dei conti della Somaglia, dei conti Bossi, dei mar­chesi Medici di Marignano, dei marchesi di Aracyel accoglievano, anzi si contendevano tutti gli artisti presenti allora nella città di Mila­no.

    Uno dei salotti che il maestro Mandanici certamente frequentò fu quello della contessa Giulia Samoyloff, nata Pahlen, dedicataria de Il Buontempone di Porta Ticinese.

    Alta, formosa, riccioli corvini, occhi verdi, capace di parlare e scri­vere in cinque lingue, appassionata di cavalli e di cani, la ricca quanto capricciosa contessa moscovita, rimasta vedova molto giovane, fu mandata a Milano dallo zar Nicola I. Parente ed amica della famiglia Litta, fu accolta con tanta simpatia nell'elegante pianeta dell'aristo­crazia milanese. Una delle sue passioni fu il Pacini, che per lei tra­scurò la avvenente principessa Paolina Borghese.

    Al salotto della Samoyloff ne vanno aggiunti altri, quali il salotto dei marchesi Medici di Marignano (alla loro figliola, madamigella Sofia (10), il musicista dedicherà la sinfonia dell'opera Il Rapimento nella versione per solo pianoforte, pubblicata da Ricordi), il salotto dei conti Litta (il conte Giulio (11), secondo quanto ci dice il Regli (12), fu dedicatario di un album mandaniciano, definito da quest'ulti­mo «un mazzo di rose»), del dott. Lichtenthal (13), che riceverà dal compositore siciliano alcuni suoi lavori con dedica autografa.

    Insomma, come afferma Barbiera, «la società milanese a quest'e­poca è una società filarmonica per eccellenza. Molti nobili coltivano la musica al punto da ingelosire gli artisti del mestiere» (14).

    Basterebbe ricordare il conte Cesare di Castelbarco Visconti che compose molta musica strumentale da camera; il principe Giulio di Belgioioso che «incantava con la sua voce di tenore»; il conte Pompeo che possedeva tal voce di basso che Rossini lo reclamò a Bologna per l'esecuzione del suo Stabat Mater; il conte Antonio che scrisse nottur­ni, oratori, messe e un'operetta, La figlia di Domenico, rappresentata al teatro Re di Milano.

    Oltre alle famiglie appartenenti alla nobiltà illuminata, anche quel­le più cospicue, benché non blasonate, aprivano le loro sontuose dimore a maestri e cantanti, che in quel periodo pullulavano nella città lombarda.

    Tra queste ultime, come è stato già detto, va menzionata la fami­glia Branca, mecenate della musica.

    Paolo Branca, «dilettante colto e generoso, erede spirituale del­l'aristocrazia del secolo precedente, aveva fatto della sua casa il vero centro promotore della musica in Milano» (15). Donizetti chiamava casa Branca «il tempio della musica». Le sue quattro figlie: Cirilla, Luigia, Matilde ed Emilia coltivarono l'arte musicale e, in particolare, ricordiamo che quest'ultima (alla quale si devono molti busti ben riu­sciti tra cui quelli di Terenzio Mamiani e di Isidoro Cambiasi), sposò nel 1844 Felice Romani.

    Questo celebre poeta melodrammatico, nato a Genova nel 1788, si era laureato in legge a Pisa e aveva insegnato letteratura greca. Dopo aver effettuato viaggi in Spagna, Grecia e Germania, era andato a Milano. Ammiratore del Foscolo e amico del Monti, fu poeta e critico. Scrisse il primo libretto per Mayr e contrasse l'impegno di produrne sei all'anno per la Scala. Fu librettista di Rossini, Bellini, Donizetti e tanti altri musicisti. Chiamato da Carlo Alberto a Torino, assunse nel 1834 la direzione della Gazzetta Ufficiale Piemontese che lasciò nel 1849 dopo Novara. A sessantasette anni si ritirò a Moneglia, ove morì nel 1865. Fra i tanti giudizi dati sul Romani, ci piace qui riportare quello del Mazzoni: «Nessuno dopo il Metastasío aveva recato sul palcoscenico una così ricca, fluida, armonica vena di movenze e di forme propriamente adatte all'espressione musicale; venne opportuno allorquando la melodia italiana cantava le sue arie a tutto il mondo civile» (16).

    L'incontro tra Romani e Mandanici avvenne con ogni probabilità in casa Branca, luogo di convegno di musicisti e di cultori dell'arte e della letteratura.

    Infatti, come attesta la moglie Emilia, anche Romani, sebbene in quel periodo abitasse a Torino, spesso capitava a Milano per trovare gli amici e la famiglia Branca, «alla quale era attaccatissimo anche per vedere la graziosa Emilietta, che doveva più tardi essere sua moglie» (17).

    «Nelle riunioni serali intime di casa Branca memorabili per le cele­brità artistico-letterarie che, avvicendandosi di continuo, vi interveni­vano, i poeti: Felice Romani, Andrea Maffei, Cesare Arici, Giulio Carcano, Luigi Toccagni, Vito Beltrani ed altri, improvvisavano lì per lì delle strofe in versi che i maestri Donizetti, Coccia, Mercadante, Lauro Rossi, Coppola, Nini, Mandanici ecc... mettevano subito in musica, ed a prima vista venivano cantati da dilettanti ed artisti... L'ampia sala di casa Branca era trasformata in un Conservatorio. Tutto serviva di leggio; il cembalo a coda, i tavolini, i bracciuoli delle poltrone, i ginocchi degli scrittori stessi...» (18).

    Le tradizioni di casa Branca, alla sua morte, ebbero un continuato­re in Isidoro Cambiasi (Milano, 1811 - ivi, 1853). Questi aveva sposa­to nel 1830 Cirilla Branca, abile pianista alla quale, oltre a Mandanici, dedicarono musiche compositori come Liszt, Thalberg, Herz, Czerny.

    Noto critico musicale e collaboratore di «Moda» e di «Gazzetta musicale», Cambiasi si accinse alla compilazione di un «Manuale bio­grafico musicale», opera di grande erudizione e di profonda dottrina, rimasta incompleta per la sua prematura morte.

    Mandanici nella già citata lettera indirizzata al maestro Ernesto Coop, definì i coniugi Cambiasi «miei buonissimi padroni ed amici».

    Merita di essere segnalato anche il salotto di casa Lucca, che «era un allegro convegno artistico e letterario; anzi nei primi mesi del 1846 quel salotto fu sede di una "Società Filarmonica" promossa dallo stes­so Lucca» (19).

    Nel 1840 alla Scala viene dato L'ombra di Tsi-Ven ossia la costanza premiata, ballo mitologico-storico in cinque atti di Salvatore Ta­glioni, già presentato il 30 maggio 1833 al S. Carlo, dove aveva avuto undici repliche.

    Il 6 dicembre dello stesso anno nel ridotto della Scala ha luogo una grande accademia vocale e strumentale. Il programma, nel quale figu­ravano le variazioni per flauto eseguite da Giulio Briccialdi che ne era anche l'autore, l'Elegia di Ernst e un capriccio su motivi de Il Pirata per violino, interpretati dal celebre Antonio Bazzini, nonché pezzi d'opere di Donizetti e di Mercadante, venne aperto con l'esecuzione di una sinfonia di Mandanici.

    Benché le nostre indagini volte a stabilire quale fosse tale sinfonia siano risultate infruttuose, siamo del parere che si sia trattato della sinfonia per grande orchestra, di cui si trova un esemplare presso il Conservatorio di Palermo e che nell'anno successivo sarebbe stata utilizzata dal maestro per /1 Buontempone di Porta Ticinese.

    Tale copia manoscritta (non è certo che sia autografa) porta in calce sul frontespizio la seguente dedica: «AI celebre Sig. M. Raimon­di con tutto il rispetto. L'Autore».

    Nell'anno seguente va in scena sempre nel massimo teatro milane­se la predetta opera. Il libretto è di G. Rossi.

    È interessante notare che tra il 1836 e il 1841, cioè in un periodo in cui ancora si chiedevano e si creavano opere nuove senza soluzione di continuità, essendo ancora sconosciuto il concetto dell'« opera di repertorio», nella sala del Piermarini soltanto cinque compositori vi­dero rappresentare per la prima volta due nuove opere. Si tratta dei musicisti Saverio Mercadante, Placido Mandanici, Carlo Coccia, Fe­derico Ricci e Giuseppe Verdi, il quale presentò Oberto, conte di San Bonifacio, che fu dato con buon esito e Un giorno di regno, che, come è ben noto, registrò un chiarissimo insuccesso, tanto che non ebbe alcuna replica, essendo stato tolto immediatamente dal cartellone.

    Le due opere mandaniciane in quel quinquennio furono Il rapi­mento e Il Buontempone di Porta Ticinese, che furono rappresentate rispettivamente per due e per sette volte.

    Il 9 settembre 1841 l'Unione Filarmonica di Bergamo, costituitasi nel 1825 per impulso del famoso Mayr, maestro di Donizetti, con il precipuo scopo di divulgare le grandi opere del patrimonio musicale europeo, lo nominava suo socio onorario e lo sollecitava a comporre qualche lavoro per quella istituzione musicale. Il maestro, aderendo a quell'invito, dopo qualche tempo inviava un volume di solfeggi per mezzosoprano, ricevendo in segno di «sincero accoglimento e soave soddisfazione» (20) un esemplare della medaglia d'oro coniata in onore del maestro Mayr in occasione del suo 78° compleanno.

    Ma al Mandanici non era giunto soltanto questo riconoscimento.

    Già nel 1835 l'Accademia di Belle Arti di Napoli lo aveva eletto suo «socio corrispondente» nella classe filarmonica, considerandosi «onorata di un socio tanto meritevole».

    Agli inizi del 1843 il musicista ritornò a Palermo per la messa in scena di Maria degli Albi--::i: un'opera melodrammatica in tre atti, espressamente composta dal maestro, memore degli anni giovanili tra­scorsi in quella città.

    Accanto alla produzione teatrale vanno però ricordate le opere strumentali, i lavori didattici, le romanze e soprattutto la musica sacra.

    In particolare per quanto riguarda quest'ultimo genere musicale, citeremo una messa per due tenori, basso e coro con accompagnamen­to d'organo, dedicata all'amico Donizetti (un esemplare, custodito nella Biblioteca del Conservatorio di Musica a Bruxelles, porta la de­dica autografa a Rossini), un'Ave Maria per tre voci con coro, una messa a tre voci e coro con accompagnamento d'organo, una Salve Regina a tre voci con organo, un Gloria in excelsis a otto voci reali.

    L'articolista della «Gazzetta dei Teatri» lo definiva: «classico autore di musiche ecclesiastiche» (21).

    In questo periodo si profila per il Mandanici la possibilità di essere nominato maestro di cappella del Duomo di Milano. Si tratta di un tipo di impiego fisso che garantiva ai musicisti una certa tranquillità dal punto di vista finanziario, il che spiega il loro interesse e quello dei rispettivi patroni tutte le volte che si determinava una vacanza.

    Infatti nel 1833, dopo la morte di Generali, Mercadante, «spinto certamente dalla necessità di dare maggiore tranquillità economica alla famiglia da poco costituita, offre i suoi servigi al Capitolo Nova­rese confidando nei suoi meriti» (22), candidandosi quale maestro di cappella di quella cattedrale, anche se si trattava di un posto non molto prestigioso.

    Il Donizetti in una lettera inviata al Mandanici da Vienna nel 1844, fra l'altro, scrive: «Mi congratulo teco dell'esito dei tuoi lavori, e del finalmente presentatosi istante di far conoscere ai R.R. del Duomo, che sei capace non solo, ma uno fra pochi degni di coprire posto così onorevole» (23). Anzi il Regli afferma: «Fu più volte in predicato per essere fatto maestro a quella Cappella del Duomo» (24).

    Tuttavia la cosa non va a buon fine. Infatti lo stesso Regli poi pre­cisa: «ma la malevolenza e l'invidia non risparmiano alcuno, né depongono i loro strali se non hanno tra gli artigli una vittima» (25).

    Inoltre da un'altra lettera del maestro bergamasco apprendiamo che nel 1844 il nome di Mandanici figura assieme a quello di Carlo Coc­cia e Carlo Soliva nella «triade» per l'assegnazione del posto di cen­sore (oggi direttore) del Conservatorio di musica di Milano.

    Tali nomine, ovviamente, oltre che conferirgli prestigio, gli avreb­bero assicurato un avvenire sereno, ma la sorte gli fu avversa.

    Comunque non c'è da stupirsi, perché sappiamo che anche Doni­zetti, per citare soltanto un caso, subì una duplice stroncatura: aspirò invano sia alla cattedra direttoriale del Conservatorio di Napoli, ben­ché per alcuni anni avesse svolto il ruolo di prodirettore, sia a quella del glorioso Conservatorio milanese.

    Il 6 febbraio 1845 a Bergamo ebbe luogo un'accademia vocale e strumentale a cura della locale Unione Filarmonica, di cui Mandanici, come abbiamo già detto, era socio onorario. Il concerto si aprì con l'esecuzione di una sinfonia. Benché il programma non contenga indicazioni che ci consentano di identificarla, varie circostanze ci fanno propendere per l'ipotesi che si sia trattato con tutta probabilità della sinfonia dall'opera Il Buontempone di Porta Ticinese.

    In quello stesso anno Luigia Boccabadati (Modena, 1799 - Torino, 1850), dopo aver calcato con successo le scene dei più rinomati teatri italiani ed europei, interpretando opere di Rossini. Donizetti e Bellini, si ritira in seguito a una malattia e apre a Milano una scuola di canto. Qui la celebre cantante, che a Napoli aveva sostenuto il ruolo di Arge­ne nella omonima opera mandaniciana, riannoda i legami di amicizia con il maestro barcellonese. Le sue figlie Virginia, Augusta e Cecilia si dedicarono al canto sotto la guida esperta della madre e furono dei soprani molto apprezzati, mentre Cesare, che, a detta di Mandanici, disponeva di una bella voce di basso, non volle attendere allo studio con serietà e costanza.

    Il maestro dimostrò in modo tangibile, almeno in due occasioni, la sua amicizia alla Boccabadati: nel 1845 le dedicò i dodici solfeggi in due libri, composti per il figlio, e due anni dopo raccomandò Augusti­na al collega Antonio Ronzi, che aveva ricevuto l'incarico da parte dell'impresario Lanari di comporre un'opera per Firenze.

    Il 17 maggio 1846 veniva inaugurato a Milano un busto di Gioac­chino Rossini scolpito in marmo per lo stabilimento Ricordi da Cin­cinnato Baruzzi, un fedele allievo del Canova.

    Fra i tanti maestri allora presenti in quella città fu Mandanici a comporre la musica per l'inno scritto da Felice Romani in onore del Cigno di Pesaro, per il quale il maestro siciliano nutriva grande stima e venerazione: infatti in una lettera a lui indirizzata lo chiamerà «uni­versale celebrità» e si dichiarerà «il più profondo de' vostri ammirato­ri» (26).

    Intanto gli eventi incalzano e l'Europa due anni dopo è percorsa da moti rivoluzionari: i popoli nel tentativo di infrangere le catene di un servaggio ormai divenuto insopportabile osano dare la stura al loro furore. Le insurrezioni e i tumulti si susseguono con ritmo crescente, quasi per un miracoloso contagio: da Palermo a Parigi, da Vienna a Milano, da Parma a Modena, dalla Polonia all'Ungheria, alla Boemia.

    Ripensando a questi avvenimenti « è difficile sottrarsi all'immagine della fiamma che corre lungo la striscia di polvere incendiando in rapida successione una lunga serie di focolai di rivolta da tempo inne­scati» (27).

    Come si è detto, anche Milano si solleva contro l'oppressore. Po­polo e borghesia durante le epiche cinque giornate combattono stre­nuamente sulle barricate e, pagando un pesante tributo di sangue, respingono i dominatori. L'esercito austriaco sotto la guida del comandante militare della Lombardia, maresciallo Radetzky, cacciato oltre il Mincio, è costretto a rinchiudersi nel Quadrilatero.

    Anche il mondo milanese è in subbuglio. Alla Scala, dove proprio il 18 marzo, giorno dello scoppio della rivoluzione, doveva essere rap­presentato Ubaldo di Valnera, un'opera nuova del compositore Lacroix, la stagione viene bruscamente interrotta.

    La testata del giornale musicale della Casa Ricordi da quel mo­mento muta denominazione e assume dapprima il titolo di «Gazzetta musicale - Eco delle Notizie politiche» e successivamente quello di «Gazzetta musicale di Milano e Italiana Armonia». Anche il settima­nale della Casa Lucca «L'Italia musicale» viene ribattezzato «L'Italia Libera» con il sottotitolo «Giornale politico, artistico e letterario».

    E ciò mentre fanno la loro comparsa una ventina di testate nuove.

    Verdi torna improvvisamente dalla Francia e scrive una «magnifica lettera» al «cittadino Francesco Piave», in cui, tra l'altro, si legge: «...Sono di là [Parigi] partito immediatamente sentita la notizia, ma io non ho potuto vedere che queste stupende barricate. Onore a questi prodi! Onore a tutta l'Italia che in questo momento è veramente gran­de!...»

    L'editore Ricordi intanto pubblica numerosi inni e canti, uno dei quali si deve a Mandanici.

    Questi, testimone degli atti di supremo eroismo compiuti dai patriotti, compone il Canto di vittoria per le cinque giornate di Mila­no nel marzo 1848, nel quale si inneggia a Milano, a Pio IX, all'Italia e si grida «morte a Radetzky».

    Con questa composizione anche Mandanici mette a servizio della causa risorgimentale la sua arte musicale, grazie alla quale riesce a infiammare di amor patrio i suoi coevi desiderosi di libertà e di indi­pendenza.

    Un altro canto che qui ci piace ricordare è intitolato Ai fratelli lom­bardi i volontari napoletani composto da Michele Ruta, che ottenne    l'onore della stampa per il personale interessamento presso Ricordi da parte del musicista barcellonese.

                    Se tacciamo degli altri, tuttavia non possiamo non segnalare Verdi, che scrisse Suona la tromba, inno popolare per coro maschile e pia­noforte e orchestra su parole di G. Mameli.

    Ben presto però le speranze dei generosi, indomiti patrioti si rivela­rono fallaci: gli Austriaci infatti rientrarono in Milano l'8 agosto di quello stesso anno,

    Con l'armistizio di Salasco si apre un nuovo quanto triste capitolo per i patrioti e per gli spiriti liberi.

    Al ritorno trionfale di Radetzky, che si abbandona a massicce rap­presaglie, seguono perquisizioni poliziesche, arresti, sequestri di beni, processi, condanne, esili, patiboli. Lì, nella piazza d'armi del Castello, per i ribelli sono pronti fucili e forche, per la schiena delle ragazze le verghe.

    Dunque è tempo di emigrare verso altre terre dove gli «indiziati di patriottismo» possano sentirsi al riparo dalla violenta reazione austria­ca.

    Il Piemonte e la Liguria diventano ricettacoli di patrioti e di emi­grati.

    Questo problema indubbiamente si pone anche per Mandanici, giacché vivere a Milano diventa di giorno in giorno sempre più diffi­cile anche per lui.

    Il 1848, dunque, gli fu veramente funesto: una grave malattia nei primi mesi di quell'anno (28), lo sfortunato epilogo dell'insurrezione e il conseguente esodo gli lasciarono lo stigma sia nel fisico che nel morale.

IV
DONIZETTI E MANDANICI: DUE SINCERI AMICI

    Tra Donizetti e Mandanici, più giovane di appena due anni, inter­corsero ottimi rapporti di amicizia: un'amicizia genuina, quasi frater­na, improntata a schiettezza, contrassegnata da costante e premurosa sollecitudine, mai inquinata da meschine invidiuzze di mestiere, non estranee al mondo degli artisti.

    Crediamo di non essere lontani dal vero se riteniamo che l'inizio della loro amicizia risalga al periodo napoletano.

    È da ricordare infatti che Donizetti, già nel 1827 (quando cioè Mandanici - come sappiamo - da tre anni circa viveva nella città partenopea) firmò un contratto con Barbaja (1) e assunse il ruolo di direttore di orchestra del Teatro Nuovo con l'impegno di scrivere quattro opere all'anno per tre anni. Nell'anno successivo dal medesi­mo impresario gli fu offerto il posto di direttore della musica dei Reali Teatri di Napoli, funzione che cominciò a svolgere effettivamente nel 1829 e che mantenne fino al 1838, quando si allontanò definitivamen­te da Napoli.

    Certamente i rapporti tra i due musicisti rimasero desti nel corso di quegli anni in cui fu intensa la produzione teatrale donizettiana e man­daniciana e si rinsaldarono successivamente a Milano, quando Mandanici, raggiunta quella città, incominciò a frequentare i salotti delle no­bili famiglie lombarde e la casa ospitale del mecenate Paolo Branca.

    Nel 1841 Donizetti ha nostalgia della natia Bergamo e vi si reca in gita, ospite della baronessa Rosa Rota-Basoni, la nobildonna sua ami­ca e ammiratrice, la quale lo accoglierà nella sua casa e lo assisterà amorevolmente assieme alla figlia Giovanna dall'ottobre 1847 fino alla sua morte.

    Ebbene per questo viaggio egli sceglie come compagno Mandanici.

    Di questo episodio ci informa Zavadini, il quale nel suo volume, Donizetti. Vita, musiche, epistolario, così scrive: «Intanto l'esser egli a Milano, il sentirsi così vicino alla cara città natale, gli fa nascere il desiderio di farvi una visita e ne scrive all'amico maestro Dolci: "Dimmi come farò per venire, se tu vieni a Milano come accennasti o se vengo io in `Negligenza:"»

    La gita avvenne realmente, ma in un giorno imprecisato, e Doni­zetti la compie in compagnia dell'amico Placido, rimanendo ambedue ospiti della signora Basoni.

    Successivamente, in data 2 novembre, così scrive al Dolci: «La signora Basoni come sta? Salutala da parte mia ed anco di Mandanici. Dille che s'ella lo desidera, egli tornerà a pranzare da lei un'altra volta acciò dia un giudizio più retto del suo appetito, che è altrettanto gran­de quanto parco fu nel nostro breve soggiorno» (2).

    È da notare con quanta bonomia Donizetti, parlando del suo amico, mette in risalto questo particolare aspetto della vita e cioè il piacere della tavola, che era abbastanza comune nei musicisti dell'Ottocento. Quando nel 1844 a Donizetti giunge notizia a Vienna della stroncatura subita a Napoli dalla sua Caterina Cornaro, il compositore incredulo apre il suo cuore pregno di amarezza all'amico Mandanici, come si evince da un brano di una sua lettera, in cui il comprensibile sfogo non è disgiunto dalla certezza che si tratti di un insuccesso immerita­to:

    «...Sentisti come Caterina fu sfortunata in Napoli? Eppure non 1'avrei creduto; e sono così testardo, 'che sentir la voglio, voglio vederla e giudicar io stesso se sia vero che la sia musica di me indegna. Tu mi conosci, e perciò spero sarai persuaso, che se a tal segno mi sono sba­gliato, lo dirò a tutto l'orbe musicale, e mi dichiarerò la prima bestia (dopo Barbaja se vivesse)...»

(lettera a Placido Mandanici - Vienna, 9 marzo 1844).

    Infatti l'anno successivo l'opera rappresentata a Parma, con la sostituzione del solo finale, anche se non si rivela un «capo d'opera», cosa del resto riconosciuta dall'autore, ottiene larghi consensi.

    Il suo sincero affetto per l'amico siciliano si rileva chiaramente dal suo epistolario.

    Alcune sue lettere indirizzate a varie personalità contengono ac­cenni a Mandanici che è sempre incluso tra le persone care da saluta­re.

    Convinto della solida preparazione musicale di Mandanici, Doni­zetti lo prega di rivedere alcuni suoi lavori:

    «...L'aria del Borgomastro al second'atto è stampata, e Gerard assi­cura che pure da voi stessi fia ristampata quindi se ne pregate Manda­nici in mio nome, potrà istrumentarla».

(lettera a Tito Ricordi - Napoli, 31 ottobre 1837)

    «...Date al nostro Mandanici coteste parole da sostituirsi nella Figlia del Reggimento a quelle dell'aria di Maria atto 2°...»

(lettera a Francesco Lucca - Parigi, 2 agosto 1840)

    «Vi rimando pure la pagina della Sinfonia della Favorita nella aquale non mancan già battute, ma troverete che mancava il pedale continuo di sol dall'undicesima battuta sino alla 29.ma che ho cercato farlo capire nelle prime, poi ho fatto come ho potuto, che perciò l'accordo forte bisogna che abbia sempre il sol naturale per pedale, se anco il sol 8a avesse il ff. È duro, ma in orchestra và, e non male. Raccomanderete tanto e poi tanto al nostro amico Mandanici le correzioni, che io ho dovuto lasciare subito Parigi e non potetti rivedere...»

(lettera a Francesco Lucca - Roma, 28 [gennaio 1841])

    «Spero che avrete di già ricevuto l'Adelia da me ridotta. Prego voi acciò pregate l'amico Mandanici, onde riveda se errori vi sono, o per parte di copisti pel canto o per parte mia nel pianoforte...»

(lettera a Francesco Lucca - bollo postale: Paris, 8 mars 41)

    «Eccoti il primo atto intero... Tutto ciò che è lirico va bene sotto la musica. Conviene però che un maestro faccia i recitativi liricati in margine, amerei che fossero fatti da Mandanici.

(biglietto a Calisto Bassi in data Xbre 1843)

    In altre lettere dirette a vari personaggi del tempo, di cui qui ap­presso riproduciamo alcuni brani, il musicista bergamasco esprime nei confronti dell'amico lusinghieri apprezzamenti, la cui credibilità è fuori discussione perché assolutamente disinteressati, e manifesta per lui una affettuosa, talora commovente sollecitudine.

    «...Egli è vero che la Cappella di Loreto è libera? Se così fosse (e ti credi che sia per me, son sicuro) avrei un amico, Maestro Mandanici, uomo di moltissima scienza, che farebbe ogni cosa per avere tal posto. Bada che già ha concorso costì [per qui] alla Cattedrale, e forse fra poco potrebb'essere fatto, ed egli non ambirebbe di andare a Loreto che per essere più vicino a casa sua (è siciliano). Se abbisognassero attestati di chiunque in Milano ed in Napoli, credo che ne avrebbe a bizzeffe.

    Informami tu ora a chi si dovrebbe proporlo, e se hai persona che tu conosci, digli che veramente sarebbe un regalo alla Santa Casa. Parlane a chi si deve e rispondimi in proposito...»

P.S. alla lettera inviata ad Antonio Vassalli, suo cognato detto fami­liarmente Toto

[Milano, 16 febbraio 1842]

«Dirai a Toto, che seppi non esser vera la morte del M° di Loreto, ma che se fosse per rinuncia, il mio raccomandato sta a Milano e si chiama Placido Mandanici-M° di musica...»

(lettera a Tommaso Persico - Vienna, 20 marzo 1842)

« E dì a Mandanici che potria cercar la piazza di maestro d'armonia in Napoli che è ancora vacante. E passando per lì farebbe i suoi passi convenevoli».

P.S. alla lettera diretta a Francesco Lucca

[Vienna] 11 maggio [1842]

«...Come! Mercadante ha accettato una piazza di Regina Coeli che rende appena 20 ducati.

Anche Mandanici da Milano farà passi, egli pure ha talento e da molti mesi aspira».

(lettera a Guglielmo Cottrau - Vienna, 26 febbraio 1845)

    In segno di gratitudine il musicista barcellonese dedicò all'amico bergamasco la messa a tre voci e coro con accompagnamento d'orga­no, edita da Francesco Lucca.

    Purtroppo non disponiamo allo stato attuale di documenti che atte­stino le apprensioni del Mandanici per la grave malattia di Donizetti, che cominciò a manifestarsi fin dal 1843 causandogli un progressivo peggioramento del suo stato fisico, e poi il suo dolore per la morte prematura.

    Infatti Donizetti si spegneva l'8 aprile del 1848 all'età di cinquan­tuno anni.

«All'alba d'uno dei più splendidi episodi della rivoluzione italiana, quando la vittoria delle barricate preludeva alla lotta non meno grande e più disciplinata delle giornate campali, scendevano nel sepolcro le spoglie del sommo maestro» (3).

    Tuttavia possiamo immaginare che Mandanici, il quale corrispose sempre in modo adeguato ai sentimenti amicali di Donizetti (diversa­mente l'amicizia non avrebbe potuto avere durata così lunga), si ram­maricò profondamente per la scomparsa non solo di uno dei massimi operisti, ma anche di un amico vero e disinteressato.

V
GLI ULTIMI ANNI

Non lontano dalla soglia dei cinquant'anni e già affetto da diabete, il musicista «fu allontanato dai tristi avvenimenti del 1848» (1) dalla città di Milano.

    Non è difficile immaginare quanto gli sia costato ciò, solo che si pensi che in quasi tre lustri di vita milanese egli si era creata un'ampia e fitta rete di autorevoli e care amicizie e che lasciare Milano signifi­cava soprattutto allontanarsi da uno dei più importanti centri musicali d'Europa.

    Trascorrerà l'ultima parte della sua esistenza, che occuperà soltan­to lo spazio di circa quattro anni, nell'«italianissima Genova» (così la chiamava il giornale milanese «Italiana Armonia»).

    In questa generosa città che offrì asilo sicuro e calda ospitalità a tanti emigrati politici giunti da varie regioni italiane, Mandanici ebbe modo di instaurare rapporti amichevoli e affettuosi con molti esuli siciliani, anch'essi lì rifugiatisi, alcuni dei quali, come afferma Barto­lone, « a lui furono prodighi di consiglio e di discreto aiuto» (2).

    Intanto nel 1850 giunge a Genova il maestro Francesco Chiaro­monte (Castrogiovanni, odierna Enna, 1809 - Bruxelles, 1886) dopo aver trascorso due anni in carcere a Palermo per ragioni politiche. Di questo musicista siciliano (anche lui allievo di Raimondi) in questa città vengono rappresentate al Teatro Carlo Felice due opere: Il Gon­doliero, che riscuote per undici sere gli applausi del pubblico sia per i meriti musicali, sia per i sentimenti patriottici di cui era intessuto, e nell'anno seguente Giovanna di Castiglia.

    Non è da escludersi che i due compositori si siano incontrati risie­dendo entrambi nella stessa città che li aveva accolti, data la comu­nanza della loro origine, della loro attività e delle loro idee politiche.

    Tra gli amici più intimi va ricordato Michele Bertolami, uomo po­litico e poeta, nato nel 1815 a Novara di Sicilia, un centro non molto distante dalla città natale di Mandanici. Benché laureato in legge, aveva manifestato interesse per la poesia e la politica più che per la giurisprudenza. Ancora ventenne infatti aveva cominciato a scrivere versi e prose, aveva collaborato ad alcuni periodici palermitani e aveva intrecciato relazioni con Bellini, Pacini e Leopardi. Nel 1848 era stato uno dei promotori della insurrezione in Sicilia e membro del Comitato di Messina insorta. Eletto deputato al parlamento siciliano, aveva fatto parte della maggioranza moderata. Ritornati i Borboni, era stato esule prima a Malta e poi a Genova. Qui tenne desti i rapporti con gli immigrati siciliani e strinse amicizia con il musicista barcello­nese. Successivamente gli sarà affidata la cattedra di letteratura italia­na nel collegio genovese di Marineria. Nel 1860 ritornerà in Sicilia e nell'anno seguente sarà eletto deputato nel collegio di Patti e riconfer­mato per tre legislature. Legato alla Destra, si batterà per sollevare le sorti della Sicilia e per reprimere il brigantaggio. Morirà a Roma nel 1872.

    Intanto nella città ligure resta vacante il posto di direttore dell'Isti­tuto di Musica, dopo la rinuncia del maestro Carlo Andrea Gambini, «compositore e pianista distintissimo ed uno dei miei più grandi ami­ci», così si esprime Mandanici in una lettera che indirizza a Rossini per presentarlo «alla vostra universale celebrità» (3). Gambini si di­mette « a cagione dell'intrapresa carriera che lo costringe ad assentarsi sovente da Genova» (4). Pertanto la Commissione consultiva dei Tea­tri, come risulta dalla deliberazione adottata nella seduta del 23 luglio 1850, conferisce la nomina a Mandanici: «Si introduce quindi discor­so sulla nomina del Direttore dell'Istituto e della Maestra di bel canto e sul modo di procedersi, se per concorso, o per nomina diretta. Discusso a lungo in proposito, si viene nell'unanime sentimento di nominarli per questa prima volta direttamente, esigendosi di avere specialmente per Direttore una notabilità. In conseguenza di ciò si proponeva e si deliberava unanimemente di nominare a Direttore il ch. maestro Placido Mandanici da parecchi anni [in realtà da circa due anni] stabilito in Genova e conosciuto in Italia per abilità distinta, di cui diede prove nelle diverse sue opere musicali...» (5).

    Sorto nel gennaio del lontano 1830 per iniziativa del musicologo genovese Antonio Costa, questo istituto nel corso degli anni aveva avuto numerosi allievi, alcuni dei quali erano divenuti ottimi strumen­tisti e celebri cantanti. Poi nel 1849 in seguito alla morte del fondato­re, da scuola privata era diventato Civico Istituto di Musica (6).

    Mandanici però rassegna le dimissioni da quella carica. Viene spontaneo chiedersi il perché di questa rinuncia.

    Da alcuni è stata avanzata l'ipotesi che il motivo sia da ricercarsi in un peggioramento delle sue condizioni di salute, ma la risposta a questo interrogativo ce la fornisce lo stesso interessato in un passo della lettera che nel novembre dello stesso anno egli invia al maestro Angelo Mariani, allora direttore del teatro italiano di Costantinopoli (7).

    Nella citata lettera ad un certo punto si legge: «Io ho creduto bene di rinunciare alla carica conferitami di Direttore dell'Istituto di musi­ca, e ho domandato le mie dimissioni prima dell'apertura della Scuo­la, perché avrei dovuto passare la mia vita pel solo Istituto e non mi sarebbe rimasto molto tempo di attendere agli affari miei particolari, senza dei quali non avrei potuto vivere per la scarsezza dell'onorario. Dopo molte mie istanze finalmente con loro dispiacere mi hanno con­cesso che io rientri nella mia abituale tranquillità, e ne sono felice...» (8).

    In fondo sono gli stessi motivi che indussero il suo amico Donizetti a rinunciare alla nomina a direttore del liceo di Bologna, resistendo alle reiterate e pressanti insistenze di Rossini.

    Il Consiglio Comunale prese atto formalmente delle sue dimissioni nella seduta del 4 dicembre 1850, riservandosi ogni decisione al mo­mento in cui avrebbe disposto di un nominativo degno di ricoprire quel posto. La scelta, poi, cadde sul maestro Giovanni Serra (Genova, 1787-1876), noto violinista e, all'atto della nomina, direttore di orche­stra del teatro Carlo Felice.

    Dunque, sia pure per un breve periodo di tempo, Mandanici svolse quella funzione, come del resto afferma Pintacuda (9).

    Tra l'altro va ricordato che sul frontespizio di una partitura della sua messa da requiem che si custodisce nel Conservatorio di Musica « Paganini» di Genova gli viene attribuito il titolo di direttore del civi­co istituto di musica genovese.

    La lettera al Mariani inoltre si rivela documento di notevole importanza non soltanto per la spiegazione che ci dà del rifiuto del posto offertogli, ma anche perché implicitamente ci fa comprendere in quale considerazione era tenuto Mandanici negli ambienti artistici genovesi. Infatti Mariani si era rivolto a lui perché interponesse i suoi autorevoli uffici al fine di ottenergli la nomina quale direttore d'orchestra presso quel prestigioso teatro.

    Nel novembre del 1851 Mandanici si recò a Torino, ma non sappia­mo quale scopo abbia avuto questo viaggio. In tale occasione fece visita al letterato e musicologo Francesco Regli, il quale già nel 1837 aveva detto del maestro: «nostro dolce, dolcissimo amico, amico di antica data, un amico da non confondere co' molti che si chiamano tali» (10). A lui in quell'occasione il compositore aprì il suo cuore (11).

    Con quale ritmo Mandanici si dedicò all'attività compositiva in questo ultimo scorcio della sua esistenza?

    A questo interrogativo purtroppo non siamo in grado di dare una risposta precisa e documentata, nonostante le diligenti ricerche effet­tuate, rivolte a rintracciare alcuni dei suoi manoscritti inediti lasciati in eredità alla famiglia assieme ai suoi averi.

    In questo ultimo periodo della sua vita compose con certezza la melodia Se nel cor è sì bella e pietosa, pubblicata a Londra nel 1850 e la messa da requiem.

    A quest'ultima opera, con cui si conclude l'esperienza compositiva mandaniciana, l'autore si accinge già perfettamente consapevole del­l'inesorabilità del male che progressivamente logora la sua fibra.

    Poco prima che compisse il cinquantatreesimo anno, assistito dalla moglie Carolina, dalle principesse di Butera e di Torrearsa e da alcuni suoi affezionati amici e allievi, Mandanici spirò in casa Gropallo, «munito dei sacramenti della penitenza, viatico e olio santo»: erano le ore 17 del 6 giugno 1852.

    L'atto di morte fu redatto dal parroco don Giuseppe Marcioni alla presenza di due testimoni: il suo allievo Serafino De Ferrari e il rev. don Giuseppe Firpo (12).

    La notizia della sua prematura scomparsa si diffuse non solo in Ita­lia, ma anche all'estero.

    I funerali ebbero luogo l'otto giugno alle ore 8.00.

    La sua salma fu «accompagnata dal corpo coristico e dall'orchestra del Teatro e da molti maestri e amici dell'estinto, al mesto suono della banda civica che precedeva il lugubre e numeroso corteggio», nonché «da straordinaria moltitudine che in lui compiangeva la perdita d'uno fra i più illustri compositori di musica» (13).

    I suoi resti mortali furono sepolti nel cimitero di Staglieno (14).

    Successivamente, il 30 giugno, nella chiesa metropolitana di S. Lorenzo, furono celebrate le solenni esequie, durante le quali venne eseguita, secondo il desiderio espresso dall'autore, la messa da re­quiem, sua ultima fatica (15).

    Bartolone nella sua biografia afferma che l'Amministrazione Mu­nicipale di Genova inviò al sindaco del comune di Barcellona una nota di condoglianza, dando così una ulteriore attestazione di apprez­zamento e di stima nei confronti del musicista.

    Questo il testo delle partecipazioni funebri pubblicate in Genova:
«È morto l'insigne Maestro Placido Mandanici.
Domani, 8 corrente alle 8 precise, antimeridiane, avrà luogo il trasporto
della sua salma a questo nostro Cimitero.
Egli è un tributo che si rende ad un uomo eminentemente benemerito dell'Arte musicale, che nessuno deve rifiutare alla
Sua memoria.
Si è perciò che i sottoscritti pregano i cittadini a volere intervenire al suo accompagnamento.»

E. Novella-S.A. De Ferrari

Cfr. G. Bartolone, op. cit., p. 28.

VI
LA SCUOLA MUSICALE DI MANDANICI

    L'insegnamento costituì uno degli aspetti fondamentali dell'attività musicale di Mandanici.

    Dotto contrappuntista (1), aprì una scuola di canto e di composi­zione a Milano e successivamente una scuola di contrappunto e canto a Genova.

    Ne «La Fama» infatti si legge: «.., in Milano, ove soggiornò molti anni, e in Genova, ove si trasferì nel 1848, attese con particolare cura all'insegnamento dell'arte sua, che perdette in lui uno de' suoi più illustri cultori...» (2).

    A Milano, dove funzionava un rinomato Conservatorio e non man­cavano maestri che godevano di stima e prestigio, la scuola del mu­sicista barcellonese ben presto riuscì ad imporsi e «godette di rino­manza» (3).

    Discepolo del Raimondi, di cui sono noti la tecnica e i formidabili studi di pazienza, Mandanici fu un suo degno seguace (4). Infatti egli non solo applicò i precetti del maestro nell'attività compositiva, ma a sua volta li trasmise sapientemente e generosamente ai suoi allievi nell'espletamento del suo apprezzato magistero, che svolse con gran­de scrupolo fino agli ultimi giorni della sua vita.

    «Dal suo letto continuava i suggerimenti e i consigli ai di lui affezionati scolari» (5).

    Il suo amico Bertolami, che disponeva di una cultura musicale per nulla disprezzabile (6), gli riconobbe vastità di dottrina e rara perizia nell'ammaestrare i discepoli.

    Dei numerosi allievi, per i quali nutrì «amore più che paterno» e «fra i quali si annoverano molti giovani maestri di merito non comu­ne» (7), ne vanno citati almeno alcuni.

    P. J. Arrieta (Puente de la Reina, Navarra, 1823 - Madrid, 1894), compositore spagnolo, fu suo allievo dal 1842 al 1845. All'atto del conseguimento del diploma presentò l'opera Ildegonda (libretto di Solera), suscitando molti entusiasmi. Ritornato a Madrid, la regina Isabella Il apprezzò quest'opera, che fu rappresentata nel 1849 per l'inaugurazione del teatro d'opera costruito all'interno del palazzo reale per volere della regina. È considerato il più grande rappresentan­te dell'italianismo in Spagna sia per la sua attività di professore e direttore del conservatorio madrileno sia per l'opera Marina. Questo suo lavoro che tuttora viene eseguito non soltanto in Spagna, nacque prima come zarzuela e poi fu modificato in opera lirica anche per con­siglio del tenore Enrico Tamberlich. « I sostenitori dell'opera naziona­le videro subito in "Marina" un esempio da imitare: l'ambiente in cui l'opera si colloca è quello tipico nazionale già evidenziato nella "zar­zuela"; la musica spigliata e fluente, fortemente intrisa di elementi derivati dal canto popolare, conserva anche tutta la freschezza della veste originale. Esistevano pertanto i presupposti per la creazione di una autentica opera nazionale e i paladini del nuovo corso espressivo non potevano lasciarsi sfuggire l'esempio che veniva dall'opera di Arrieta» (8).

    A buon diritto Achille Galli (1829-1905) è considerato concorde­mente dagli studiosi un allievo di Mandanici, anche se poi si recò a Napoli per completare la sua formazione musicale presso quel Con­servatorio. Ritornato nella natia Padova, insegnò pianoforte, canto e composizione, scrisse un'opera teatrale (Il duca di Foix, Padova 1852), una cantata, innumerevoli pezzi per pianforte e varie romanze.

    I suoi due ultimi allievi a lui particolarmente affezionati furono S.A. De Ferrari e Giovanni Firpo.

    Serafino Amedeo De Ferrari (Genova, 1824 - ivi, 1885) fu maestro concertatore ad Amsterdam, direttore di canto prima al Carlo Felice di Genova, sua città natale, poi al Carignano di Torino. Dal 1873 gli fu affidata la direzione del Civico Istituto di Musica di Genova, quella che tanti anni prima il suo maestro aveva rifiutato. Notevole fu la sua produzione teatrale, ma le opere che gli diedero popolarità furono Pipelet e Il Cadetto di Guascogna. A lui si devono anche un ballo, Delia, in collaborazione con altri, alcune messe, musica da camera e liriche. Seguace dell'opera buffa, il De Ferrari fu musicista caro a Giuseppe Verdi, il quale lo chiamava per celia « S(ua) A(ltezza)» De Ferrari. Secondo i critici fu un melodista facile e piacevole e la sua musica trovò buona accoglienza presso il pubblico.

    Certamente egli fu l'allievo più legato al maestro Mandanici e ne serbò un caro ricordo, che neppure il trascorrere del tempo riuscì a sbiadire. Infatti, a venticinque anni dalla morte del suo maestro, De Ferrari, tenendo l'orazione funebre per Petrella, deceduto in gran miseria a Genova nel 1877, non poteva fare a meno di ricordarlo: «...Ah sì, o venerato ed infelice artista; la nostra Genova avrà sempre cara la tua memoria. E quando non ci sia concesso esser perpetuamen­te custodi della tua salma preziosa in questa superba Necropoli, che un'altra me ne ricorda di un illustre tuo concittadino, il venerato mio maestro Placido Mandanici, non sarà mai che sulla tua tomba manchi un fiore, od una corona...».

    Tra gli alunni di canto segnaliamo Giovanni Firpo (Genova, 1829 - ivi, 1910). Dopo aver debuttato a Casale Monferrato nel 1860-61, si esibì nei principali teatri di Spagna, Francia, Grecia. Fra le sue più notevoli interpretazioni: Ernani, Ballo in maschera, Rigoletto, Trovatore.

    Inoltre va sottolineato che non pochi artisti che avevano frequenta­to la scuola di altri maestri, ricorsero a Mandanici per suggerimenti e consigli.

    Tra questi ricordiamo Leone Giraldoni, il baritono che in seguito avrebbe ottenuto successi in Italia e all'estero e per il quale molti maestri, tra cui Verdi, avrebbero composto lavori teatrali.

    A proposito di questo cantante, che gli fu raccomandato dall'amico maestro Luigi Ronzi, il quale tenne una rinomata scuola di canto prima a Bologna e poi a Firenze, Mandanici scrive in una lettera: «ho dato tutti que' consigli che ho potuto». Ferito dall'atteggiamento del Giraldoni, aggiunge: « è partito senza venirmi a vedere; è ritornato e non viene a trovarmi» (9).

    Né mancò di dare indicazioni e di sollecitare allo studio il giovane figlio dell'amica Luigia Boccabadati, il basso Cesare Gazzuolí, per cui scrisse dodici solfeggi in due libri.

    In una lettera ad Antonio Ronzi così si esprime: «ho veduto nello stesso tempo di procurare una lezione a Luigi, ed ho consigliato per ciò la Boccabadati madre che obbligasse suo figlio Cesare di profitta­re de' consigli e dell'esperienza dell'ottimo Luigi. Cesare, che per na­tura non ha mai voluto attendere allo studio, non ha frequentato la scuola di Luigi» (10).

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